Maltrattamenti e
torture: la condizione dei giovani palestinesi nelle carceri israeliani
Tel Aviv –
L’Esercito israeliano, per bocca del suo portavoce, ha annunciato che alcune
procedure relative all’arresto e alla detenzione dei minori palestinesi,
verranno riformate per venire incontro alle raccomandazioni che, nei mesi
scorsi, l’UNICEF aveva rivolto alle autorità israeliane.
Nel rapporto dell’agenzia
delle Nazioni Unite, venivano infatti denunciati “maltrattamenti
diffusi, sistematici e istituzionalizzati“. Il Governo di Tel Aviv, al momento
dell’uscita del rapporto, si era dichiarato disponibile a cooperare per
assecondare alcune delle richieste presenti nel documento. A ben guardare però,
dietro le dichiarazioni di facciata, appare oggi evidente come le autorità
israeliane non abbiano alcuna intenzione di modificare il loro modus
operandi.
Infatti, delle 38 raccomandazioni presenti nel rapporto,
soltanto 3 sono state prese in considerazione. Eppure, la situazione
complessiva descritta dal documento, avrebbe richiesto ben altri interventi per
rimediare ad una serie di pratiche in palese violazione delle più elementari
norme del diritto internazionale e delle convenzioni sui diritti dei minori.
Per capire di cosa si sta parlando e della dimensione del problema, è utile
partire dai numeri: attualmente, secondo alcune ong che si occupano di fornire
assistenza ai giovani detenuti palestinesi ed alle loro famiglie, nelle carceri israeliane sono rinchiusi
circa 200 minori. Ogni anno sono 700
i ragazzi tra i 12 ed i 17 anni arrestati dall’Esercito israeliano. Nella
maggioranza dei casi, sono accusati di lanciare sassi nei confronti di soldati
che presidiano gli insediamenti ebraici in Cisgiordania. Un reato che può
comportare fino a 6 mesi per chi ha dai 12 a 13 anni e fino a 10 anni per
bambini dai 14 ai 15 anni. In più occasioni i vertici dell’Esercito
hanno cercato di giustificarsi accusando le organizzazioni armate palestinesi
di ricorrere ai bambini per compiere le loro azioni, ma proprio il reato di cui
sono generalmente imputati i ragazzi fermati, cioè il lancio di sassi,
smentisce tali accuse, rendendo ancora più inaccettabili i brutali trattamenti cui sono sottoposti.
Negli oltre 400 casi documentati dall’UNICEF, quella che viene
ricostruita, è una prassi costante e generalizzata, che non trova altra
giustificazione se non nella volontà di umiliare e terrorizzare i ragazzi
colpiti da questi provvedimenti. Gli arresti vengono di norma effettuati di
notte, con l’irruzione dei militari israeliani nelle abitazioni dei sospetti,
attraverso l’impiego di bombe assordanti e con il deliberato danneggiamento del
mobilio. I ragazzi vengono trascinati via bendati e legati per i polsi
con legacci di plastica. Ai genitori non solo non viene permesso di
accompagnarli, ma spesso non viene nemmeno comunicata la destinazione o il
reato di cui sono accusati. Il viaggio verso i centri di detenzione può durare
anche molte ore, durante le quali non viene permesso loro di recarsi al bagno o
di usufruire di acqua e cibo. Una
volta giunti nei commissariati, i giovani palestinesi vengono sottoposti ad
interrogatori senza l’assistenza di un legale e senza la presenza di un parente.
Non vengono informati dei loro diritti, tra cui quello di non auto-accusarsi, e
per far loro confessare i reati di cui vengono incolpati, vengono di
norma sottoposti a pressioni psicologiche e fisiche. Durante gli interrogatori
restano legati alla sedia in posizioni scomode e dolorose anche per parecchie
ore. Alla fine, costretti a confessare, firmano documenti redatti in ebraico,
senza avere la minima idea di cosa vi sia scritto. É solo al momento
dell’udienza nel Tribunale militare per minori che i giovani detenuti hanno il
primo incontro con il loro avvocato.
Inoltre, essendo la documentazione del caso prodotta solo in
lingua ebraica, appare evidente come sia difficile poter garantire agli
imputati un processo equo. La custodia
cautelare in questi casi può essere estesa fino a 188 giorni e non è previsto
il rilascio su cauzione. Lo stesso periodo di detenzione, come denunciato
dalle testimonianze di molti ragazzi, è accompagnato da violenze ed
umiliazioni. Inoltre, la detenzione ha luogo in carceri situate sul territorio
israeliano, che rendono estremamente difficoltose le visite dei genitori, a
causa delle leggi che vietano ai palestinesi della Cisgiordania di viaggiare
all’interno di Israele in assenza di appositi permessi, molto difficili da
ottenere. A fronte di questi trattamenti crudeli e disumani, e delle
evidenti conseguenze sull’equilibrio psicologico di questi ragazzi, il Governo israeliano
ha accettato solamente di interrompere gli arresti notturni, di ridurre il
tempo di detenzione prima di vedere un giudice (24 ore per i bambini di 12-13
anni e due giorni per i bambini di 14-15 anni) e di separare le udienze dei
bambini da quelle degli adulti. Ben poco rispetto a quanto denunciato
dall’UNICEF. Eppure, i nostrani campioni della difesa dei diritti umani (....) non sembrano
interessati ad esercitare pressioni per porre fine a questo stato di cose.
Massimiliano Frassy
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