giovedì 24 ottobre 2013

La questione delle prigioni giapponesi


Dove ci sono pochi carcerati, poche guardie e dove tutto sembra funzionare alla perfezione: ma questo ha un costo, racconta l'Economist



Il Giappone è uno dei paesi del mondo industrializzato con la più bassa percentuale di carcerati sul totale della popolazione: 55 ogni 100 mila abitanti. Soltanto l’Islanda, con 49, riesce a fare meglio. Non solo: in Giappone il tasso di recidiva, cioè di quanti incarcerati tornano a commettere reati una volta scontata la loro pena, è, anche se in crescita, tra i più bassi al mondo: poco sotto il 40% (il livello di Svizzera e Svezia) contro, ad esempio, il 67% degli Stati Uniti e il 50% del Regno Unito.
Dalla Seconda Guerra Mondiale non c’è mai stata una rivolta in un carcere. Le evasioni sono rarissime, lo spaccio di droga e il contrabbando all’interno delle carceri sono quasi inesistenti. Non solo non ci sono rivolte, ma si ricordano pochissimi casi di violenza di qualsiasi tipo nei confronti di un agente carcerario. Eppure il rapporto detenuti agenti è di 1 a 4, la metà di quello del Regno Unito (in Italia è ancora più basso: circa un agente ogni 1,5 detenuti).
Davanti a dati del genere viene subito da pensare che il sistema carcerario giapponese abbia qualcosa che vale la pena di imitare. Un’impressione aumentata dal racconto che ha fatto l’inviato dell’Economist che ha visitato la prigione di Chiba a Tokyo: «Assomiglia in qualche modo a una caserma di soldati spartani. I corridoi e le piccole celle non hanno una macchia. Prigionieri ordinati avanzano in fila indiana dietro le guardie e si inchinano prima di entrare in cella». La domanda, a questo punto è: a quale costo viene raggiunto tutto questo?
In un rapporto del 1995, Human Rights Watch ha sostenuto che il costo umano per i detenuti era troppo alto ed è l’impressione che ha riportato anche l’inviato dell’Economist. Nelle prigioni giapponesi i carcerati non possono parlare, se non durante il poco tempo libero. Il lavoro non è una scelta o un privilegio, ma un obbligo per tutti e non viene pagato. A Chiba vengono prodotte scarpe di pelle e mobili, e i carcerati lavorano sorvegliati soltanto da una guardia disarmata.
Metà dei prigionieri devono scontare un ergastolo che in Giappone significa carcere a vita senza possibilità di permessi premio o diminuzioni della pena per buona condotta. Le visite coniugali non sono permesse. Secondo un rapporto di Amnesty International l’ordine nelle prigioni giapponesi viene mantenuto usando punizioni pesantissime per le più piccole infrazioni. Secondo l’ONG, un prigioniero può ritrovarsi chiuso per giorni in una cella di isolamento, costantemente ammanettato, solo per aver risposto in maniera scortese a una guardia.
Americani ed europei che hanno scontato un periodo di carcere in Giappone hanno sviluppato disturbi mentali, una cosa di cui alcuni giapponesi intervistati dall’Economist sembrerebbero andare in qualche modo orgogliosi. «Naturalmente il nostro sistema è troppo rigido per gli stranieri», ha detto al corrispondente una guardia della prigione di Chiba. Ma, ha aggiunto, i prigionieri oggi sono tutti giapponesi e per loro il sistema funziona benissimo.




martedì 22 ottobre 2013

La vita dietro le sbarre

I problemi dei luoghi di detenzione russi: reportage da una prigione femminile

La vita dietro le sbarre


L'attenzione dei media e dei difensori dei diritti civili è stata calamitata dalla situazione nei luoghi di detenzione per donne in Russia. Il motivo è stato lo sciopero della fame iniziato da una delle componenti delle Pussy Riot, Nadezhda Tolokonnikova. Esperti e testimoni parlano della necessità di rendere il sistema correzionale più umano, ma non vedono niente di critico nello stato di cose attuale.
I russi e le Pussy Riot
Guarda la nostra infografica
La Tolokonnikova aveva scritto una lettera aperta in cui denunciava i soprusi nei confronti delle donne che si trovano con lei in quel campo di lavoro, dichiarando inoltre di essere minacciata dalla direzione della colonia. La ragazza ha così indetto uno sciopero della fame. La dirigenza del centro penitenziario assicura che non ci sono state minacce e chela vita dietro le sbarre in Mordovia non è molto diversa da quella nelle carceri di altre parti della Russia. I membri del Consiglio per i diritti dell’uomo presso la Presidenza della Federazione Russa ha avviato dei controlli.
Russia Oggi è andata in visita in uno dei luoghi di detenzione per donne dell’oblast di Ivanovo, simile a quello in cui si trova la Tolokonnikova.
Accanto all’alta recinzione di ferro stanno tre enormi pastori tedeschi che cercano di strappare il guinzaglio, abbaiando alla colonna di donne che, senza dovere mettersi d’accordo, si fermano. Il recinto separa le baracche del campo dalla sartoria.
"Aprire subito le borse" urla un'aiutante delle guardie. Ubbidendo, tutte aprono i sacchetti trasparenti in polietilene dove si mettono le scarpe di ricambio e la divisa del reparto. La guardia si avvicina a ciascuna detenuta, ispeziona lei e il sacchetto. Le donne sono sottoposte a questa procedura due volte al giorno, quando vanno in reparto e al ritorno.
Perm 36: guarda il video
dalla colonia penale sovietica
di massima sicurezza 
“È perché non portino via niente dalla sartoria, - confida la sorvegliante. - Le donne sono più spietate degli uomini. Fanno passare qualcosa in stanza e poi se la prendono con la vicina. Anche se qui le aggressioni alle compagne sono una rarità”. Alle pareti delle celle sono appesi degli stracci sudici, mentre nel lungo corridoio il pavimento che scricchiola per l’umidità è ingombro di bacinelle con la biancheria a bagno. “Cosa avete messo qui? - urla la guardia. - Il carcere dovreste farvelo per un’igiene così”. 
Una ragazza balza fuori dal letto, si precipita in corridoio e infila la bacinella sotto il letto. Un’altra detenuta corre all’idrante che c’è fuori, mette un po’ di ammorbidente sulla biancheria sotto il getto d’acqua fredda. La situazione ricorda gli studentati femminili dei tempi sovietici, dove ogni anno facevano i lavori di ristrutturazione, ma dopo qualche mese l’umidità penetrava di nuovo nei muri e i pavimenti in legno marcivano con la stessa rapidità degli abitanti.
Tutte devono lavorare in sartoria secondo le regole. Le tzigane si affollano a un tavolo a parte. Le macchine da cucire non si fidano molto di loro. Si danno da fare con le forbici, ritagliando minuziosamente i fili che pendono; sono quasi tutte dentro per spaccio di droga e negli ultimi anni il numero cresce sempre di più.
“Ogni volta alle visite viene tutto l’accampamento, ma lasciamo entrare soltanto i parenti stretti. Gli altri fanno baldoria, cantano canzoni oltre la recinzione”, spiega la sorvegliante.
Nell'Alcatraz russa:guarda la fotogallery
Le gonne azzurre sotto il ginocchio, le grandi giacche informi e il fazzoletto bianco in testa rendono identiche tutte le detenute della colonia penale di Ivanovo. Dal gruppo di ragazze che riempie la sartoria della colonia, si distingue soltanto la ventenne Alina. I dread biondi spuntano dal foulard, mentre sul naso e sul sopracciglio sono rimasti i buchi dei piercing, un ricordo della vita in libertà, quando Alina era un’instancabile festaiola e una frequentatrice abituale dei concerti rock e delle discoteche techno.
“Non potevo neppure supporre che sarei finita qui, tra queste tipe recidive. Mi sembra un brutto sogno - confessa Alina. - Nelle celle fa freddo. La cosa più paurosa è che qui si formano dei gruppi di ragazze e devi avere fiducia in te stessa se vuoi resistere. Loro collaborano con l’amministrazione, così gli è più facile comandare tutte le altre”.
Prima Alina studiava chimica e nel tempo libero vendeva droghe leggere. Si è presa tre anni per spaccio e la sua vita è cambiata. La ragazza fragile si è trasformata in una vera e propria roccia, sempre sulla difensiva.
“Si vivono in tensione i primi sei mesi, ora invece sono riuscita più o meno a farmi conoscere”, racconta.
Aleksandr Egorov gestisce il più vecchio centro di riabilitazione di ex detenuti della Russia; racconta che le donne vanno raramente da lui e non finiscono quasi mai dietro le sbarre una seconda volta. “Abbiamo smesso di lavorare con le donne, a loro non serve quasi il nostro aiuto. Tra chi viene liberato rappresentano un numero esiguo, sono un ventesimo di tutti i detenuti, e tendono a non essere recidive - spiega Egorov. - Le recidive che si incontrano sono ragazze impossibili da correggere, con le quali non si può lavorare. In un anno da noi sono venute poche persone, anche se l’amministrazione di San Pietroburgo vuole creare per loro un centro speciale”.
Marija Kannabich, Presidente della Ong “Fondo di beneficienza interregionale per l’assistenza ai detenuti”, membro della Camera civica della Russia, racconta che ci sono in effetti problemi nelle colonie russe e i difensori dei diritti umani ne parlano di continuo. “Nadezhda Tolokonnikova ha certamente ragione quando dice che il sistema penitenziario deve perfezionarsi, diventare più umano. Purtroppo, però, ci sono molti campi di lavoro problematici, dove le detenute lavorano più di 8 ore al giorno. Tuttavia, soltanto in un terzo di tutti i campi russi si può lavorare e le colonie sono in competizione per gli appalti di lavoro”, spiega la Kannabich.
I detenuti lavorano spesso per 10-11 ore, ma ricevono uno stipendio che è pari a quello dei lavoratori stipendiati del centro. “Ho parlato con loro, ricevono 7.000 rubli, più o meno come un addetto della mensa. I detenuti sono però persone asservite ed è difficile ricevere da loro testimonianze veritiere”. Piuttosto di recente nei mass media sono circolati comunicati sul fatto che i detenuti guadagnino in realtà pochissimo; nessun membro della dirigenza del Sistema penitenziario federale ha commentato tale informazione.
È curioso che le ragazze in prigione oltre a fare lavori di cucito, si occupino di pizzi e ricami e dipingano le matrioshke. Secondo i dati forniti dalla Kannabich in Russia si contano circa 58.000 donne detenute.