La questione delle prigioni giapponesi
Dove ci sono pochi carcerati, poche guardie e dove tutto sembra funzionare alla perfezione: ma questo ha un costo, racconta l'Economist
Il Giappone è uno dei paesi del mondo industrializzato con
la più bassa percentuale di carcerati sul totale della popolazione: 55 ogni 100
mila abitanti. Soltanto l’Islanda, con 49, riesce a fare meglio. Non solo: in
Giappone il tasso di recidiva, cioè di quanti incarcerati tornano a commettere
reati una volta scontata la loro pena, è, anche se in crescita, tra i più bassi
al mondo: poco sotto il 40% (il livello di Svizzera e Svezia) contro, ad
esempio, il 67% degli Stati Uniti e il 50% del Regno Unito.
Dalla Seconda Guerra Mondiale non c’è mai stata una rivolta
in un carcere. Le evasioni sono rarissime, lo spaccio di droga e il
contrabbando all’interno delle carceri sono quasi inesistenti. Non solo non ci
sono rivolte, ma si ricordano pochissimi casi di violenza di qualsiasi tipo nei
confronti di un agente carcerario. Eppure il rapporto detenuti agenti è di 1 a
4, la metà di quello del Regno Unito (in Italia è ancora più basso: circa un
agente ogni 1,5 detenuti).
Davanti a dati del genere viene subito da pensare che il
sistema carcerario giapponese abbia qualcosa che vale la pena di imitare.
Un’impressione aumentata dal racconto
che ha fatto l’inviato
dell’Economist che
ha visitato la prigione di Chiba a Tokyo: «Assomiglia in qualche modo a
una caserma di soldati spartani. I corridoi e le piccole celle non hanno una
macchia. Prigionieri ordinati avanzano in fila indiana dietro le guardie e si
inchinano prima di entrare in cella». La domanda, a questo punto è: a quale
costo viene raggiunto tutto questo?
In un
rapporto del
1995, Human
Rights Watch ha sostenuto che il costo umano per i detenuti era
troppo alto ed è l’impressione che ha riportato anche l’inviato dell’Economist.
Nelle prigioni giapponesi i carcerati non possono parlare, se non durante il
poco tempo libero. Il lavoro non è una scelta o un privilegio, ma un obbligo
per tutti e non viene pagato. A Chiba vengono prodotte scarpe di pelle e
mobili, e i carcerati lavorano sorvegliati soltanto da una guardia disarmata.
Metà dei prigionieri devono scontare un ergastolo che in
Giappone significa carcere a vita senza possibilità di permessi premio o
diminuzioni della pena per buona condotta. Le visite coniugali non sono
permesse. Secondo un
rapporto di Amnesty
International l’ordine
nelle prigioni giapponesi viene mantenuto usando punizioni pesantissime per le
più piccole infrazioni. Secondo l’ONG, un prigioniero può ritrovarsi chiuso per
giorni in una cella di isolamento, costantemente ammanettato, solo per aver
risposto in maniera scortese a una guardia.
Americani ed europei che hanno scontato un periodo di
carcere in Giappone hanno sviluppato disturbi mentali, una cosa di cui alcuni
giapponesi intervistati dall’Economist sembrerebbero
andare in qualche modo orgogliosi. «Naturalmente il nostro sistema è
troppo rigido per gli stranieri», ha detto al corrispondente una guardia della
prigione di Chiba. Ma, ha aggiunto, i prigionieri oggi sono tutti giapponesi e
per loro il sistema funziona benissimo.
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